Data analyst: il professionista che estrae il “nuovo petrolio”

Sono tra le figure più cercate nel mercato del lavoro e su LinkedIn compaiono nella top 10 dei professionisti di cui le aziende hanno più bisogno in questi anni. Nel 2012 la Harvard Business Review lo definì «il lavoro più sexy del XXI secolo». I data analyst (o data scientist) sono gli occhi e la mente delle imprese sui big data, il nuovo petrolio che muove l’economia globale dove la conoscenza delle informazioni spesso fa la differenza tra scelte giuste e quelle sbagliate. Sono sempre di più le cosiddette data driven society. Ma come si diventa data analyst? La formazione tecnico-scientifica sta alla base di una professione simile e, dunque, le materie STEM (Science, Technology, Engineering e Mathematics) rappresentano i pilastri dei data scientist. 

Che scelte accademiche fare? 

Chi sogna di entrare, un domani, in una grande azienda come Chief Data Officer deve innanzitutto conoscere i linguaggi di programmazione come R o Python, avere dimestichezza tanto con la statistica quanto con il machine learning. Il percorso universitario più frequente spazia dalla laurea in Ingegneria informatica fino a quella in Matematica, titoli a cui poi dovrebbero seguire master professionalizzanti o altri percorsi di studio verticali sul tema dei Big Data. Essere un data analyst non significa soltanto spiegare ai manager – che si assumono poi le responsabilità delle decisioni – il “che cosa” un dato dice: spesso un’azienda ha a propria disposizione soltanto i dati grezzi che vanno ordinati e interpretati.  

Proprio questo concetto – interpretare i dati – diventa irrinunciabile per avere un impatto sulla propria azienda. I data analyst non sono da intendere come nerd che lavorano nelle retrovie: una delle loro abilità richieste è anche quella di saper comunicare e volgarizzare il proprio lavoro perché manager e altre figure interne possano fare le scelte migliori possibili con la marcia in più della conoscenza sui Big Data. Ecco allora che, tra le tante competenze del data scientist, rientra anche quella di destreggiarsi con programmi di grafica per metter in bella mostra il proprio lavoro in modo da renderlo più convincente possibile.  

Attenzione però al falso mito del mondo dei dati come di un’arena esclusiva per chi viene dal mondo scientifico. Gli studi umanistici non rappresentano di per sé un ostacolo all’intraprendere una carriera di questo genere: come in tutte le cose, e a maggior ragione in questa, diventare data analyst richiede pratica (molta pratica). Nel 2008, Hal Varian, economista e Chief Economist di Google, lo spiegò in poche parole: «Il mio consiglio è quello di seguire molti corsi su come manipolare e analizzare i dati: database, machine learning, econometria, statistica, visualizzazione e così via».  

Prospettive per il futuro 

Il decennio appena iniziato potrebbe vedere i data analyst come la figura professionale più cercata in assoluto dalle risorse umane delle aziende. Stando ai dati del 2018 dell’Osservatorio sui Big Data del Politecnico di Milano questo mercato valeva 1,4 miliardi di eur(+26% sull’anno precedente). Le aziende che assumono figure simili ottengono miglioramenti sotto diversi punti di vista, tra cui maggiore impatto nell’engagement con il cliente, riduzione del time to market e dei costi. Finora, in Italia, gli investimenti sui Big Data riguardano soprattutto le grandi aziende.  

Secondo Modis, che ha realizzato una survey su 152 aziende, le imprese che dispongono di una divisione dedicata all’analisi dei dati hanno riscontrato miglioramenti nella produttività e nelle vendite, nella logistica e nella gestione delle risorse umane; inoltre competenze interne di questo tipo consentono una gestione più oculata delle scorte (si evitano gli sprechi), manutenzione migliore e potenziamento della sicurezza sul lavoro.   

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